Gli orrori grammaticali d’ateneo. E speriamo che se la “cavano”!
di Silvia Siniscalchi

Non ci si stupisca se negli scritti della maggiorparte degli studenti universitari dell’ateneo salernitano si possono leggere i più vari “orrori” grammaticali, sintattici e di punteggiatura.
Neppure si resti trasecolati al cospetto del “revisionismo storico-geografico” di molti degli iscritti alle facoltà umanistiche, secondo cui, per esempio, l’Unità d’Italia si sarebbe compiuta nel XX secolo e la nostra penisola si troverebbe a sud dell’Equatore (!). E che dire delle nuove scoperte di cultura generale secondo le quali “S. Freud” sarebbe stato un famoso santo e “Postilla” un celebre critico letterario, fino ad arrivare ai più ricercati e raffinati “francesismi”, come il celebre “in auge” che alcuni studenti leggono “in òge”?
Eppure i dati sull’aumento di accessi alle università italiane sembrano fornire le stime di un paese in costante evoluzione culturale.
Nel “Decimo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario” a cura del C.N.V.S.U. si legge che il numero di studenti universitari è aumentato in maniera esponenziale negli ultimi cinquant’anni: dai circa 300mila iscritti del 1960/61 si è passati ai 718mila del 1970/71, al milione e 60mila del 1980/81, al milione e 457 mila del 1990/91, al milione e 689mila del 2000/01 sino al milione e 809mila del 2007/08.
Si tratta, indubbiamente, di una conclamata affermazione della università cosiddetta “di massa” rispetto a quella “elitaria” di un tempo.
Oltre che dalle tanto celebrate riforme del ’68, come noto, la trasformazione è stata ulteriormente favorita dalla liberalizzazione degli accessi all’università degli anni ’80, con l’ingresso ai corsi universitari di tutti i diplomati delle scuole superiori, senza più distinzioni.
A questa crescita quantitativa, tuttavia, si accompagna da tempo la progressiva diminuzione del livello qualitativo dell’istruzione universitaria nel suo complesso. A parte le polemiche sui sistemi di reclutamento di docenti e ricercatori, che pure hanno svolto (e svolgono) un indubbio effetto sul peggioramento del sistema formativo universitario e della ricerca nel suo insieme, si resta sempre più sconcertati al cospetto di un esercito di studenti poco più che analfabeti.
Il problema è, come ovvio, a monte. In un recente studio di Graziella Priulla (L’Italia dell’ignoranza. Crisi della scuola e declino del Paese, Franco Angeli) si legge che in Italia più dell’80% dei quindicenni non è in grado di leggere correntemente un testo e molti neo-diplomati sono incapaci di decifrare i titoli di un quotidiano, di produrre senza errori uno scritto elementare, di sviluppare un’argomentazione logica e coerente.
Eppure sono proprio molti di questi ultimi ad accedere alle università, come confermano alcuni dati dell’ateneo di Salerno, dove i test d’accesso ai corsi di laurea delle varie facoltà, nel misurare “le competenze” delle aspiranti matricole, ottengono risultati desolanti. La situazione è ulteriormente aggravata da una politica di reclutamento universitario molto poco lungimirante, ispirata a logiche direttive e istituzionali volte più a far quadrare i conti ed esibire risultati ufficiali (come il numero annuale di laureati) che a formare e selezionare i futuri professionisti di una rinnovata classe dirigente.
È così in corso una surreale metamorfosi dell’università pubblica di massa, sempre più simile a un omogeneizzato per infanti a base di macro o micro-ignoranza diffusa che a un progetto formativo di cultura condivisa. Tale situazione non può non far pensare alla drammatica crisi di un sistema educativo e formativo che rappresenta i prodromi di una società sempre più incapace di elaborare idee e interpretare la realtà.
Non è dunque improbabile ipotizzare che, dopo le epigrafi delle iscrizioni latine, i futuri storici e archeologi saranno costretti a decifrare con impegno esegetico le testimonianze brachilogiche, tachigrafiche e sgrammaticate di una novella età neo-barbarica.
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