Una grande bellezza colma di rimpianto
di Luigi Zampoli
Paolo Sorrentino ed il suo film “La Grande Bellezza” ce l’hanno fatta. L’Academy ha insignito il cineasta napoletano del premio Oscar come miglior film in lingua straniera, a quindici anni di distanza dal trionfo di Roberto Benigni con il suo “La vita è bella”.
La produzione artistica italiana, almeno quella cinematografica, ritorna così ad ottenere i massimi riconoscimenti internazionali, proprio con un ‘opera che in qualche modo ne “celebra”, in modo raffinato e melanconico, il declino e la decadenza, attraverso la vicenda del protagonista del film, Jep Gambardella e della sua “tribù”, con Roma, bellissima nonostante la “scompostezza” di chi la popola, a far da sfondo.
Una metafora lucida e senza retorica di un tracollo, di un esito infausto di aspirazioni personali e collettive, ma soprattutto un film che descrive la difficoltà e le conseguenze dell’esser sinceri con se stessi e con gli altri, quando giunge il momento di mettere le carte in tavola e tirare le somme.
La critica straniera ha indugiato particolarmente su due aspetti: l’affresco di uno spaccato di società italiana che emerge nell’opera di Sorrentino ed il richiamo alle atmosfere de “La dolce vita “di Fellini.
Due titoli “positivi”: “La Dolce Vita e la “Grande Bellezza” fanno da contraltare a due personaggi disincantati , disillusi, cinici: Marcello e Jep, il primo è un aspirante scrittore, il secondo è uno scrittore che ha scritto un solo libro, quarant’anni prima……Marcello è Jep, al netto dell’amarezza, dello sguardo su tutto ciò che è passato.
In fondo è velleitario attardarsi in paragoni e comparazioni tra due opere stilisticamente così diverse, più che altro è un esercizio narcisistico per i critici che possono lanciarsi in disquisizioni che, peraltro, un film come quello di Sorrentino consente in molteplici direzioni.
Tra gli “effetti desiderati“ de “La Grande Bellezza” questo è il più evidente. La riscoperta del gusto di discutere su di un film profondo e complesso, intrecciando il conscio e l’inconscio: il personaggio di Toni Servillo e la nostra condizione di vita personale, non tanto quella attuale, ma , in particolare, quella futura, prefigurata; la paura malcelata di ritrovarsi un giorno a dire a noi stessi “…..cercavo la grande bellezza e non l’ho trovata..”.
È un film “stratificato” che richiede almeno un paio di visioni e tracima in lunghe discussioni sul titolo, sulla storia, su Roma, sulla religione e, soprattutto, su Jep e la sua corte di amici annoiati, istrionici, inquieti, di donne insoddisfatte e rassegnate e di donne rimpiante.
E parlandone si corre un rischio, quello di ritrovare un po’ di Jep Gambardella in tutti noi, nel misurare l’ampiezza del dissidio tra ciò che siamo diventati e ciò che pensavamo di poter diventare.